In una calda mattinata d’agosto apparve, sulla piazza del paese, un baraccone di zingari. L’opprimente vampa di quell’estate torrida si trascinava da settimane e costringeva tutti a rimanere rintanati in casa, senza osare posare il piede all’esterno, sul selciato rovente delle strade. Io stesso, non fidandomi della mia tarda età, trascorrevo la maggior parte delle giornate in casa, accettando di arrendermi alla noia. Quel mattino, però, dalla mia finestra vidi la piazza iniziare piano piano a riempirsi di teste, cappellate o velate, che andavano formando capannelli inquieti che mutavano forma in continuazione, in un mandala di toni di grigio. Gli zingari avevano allestito numerose piccole attrazioni lungo il perimetro del loro carro, e tra queste, alcune gabbie di animali. Era la gabbia più grande che aveva attirato tutta quella gente in piazza. In essa se ne stava chiuso un enorme gorilla, che, mezzo addormentato, non curandosi degli sguardi ammirati e delle grida dei bimbi, forse un po’ stordito dal caldo, sonnecchiava a pancia all’aria, steso sulla paglia. Sparuti gruppi di curiosi passeggiavano avanti e indietro e attorno al gorilla, chi scambiandosi domande, chi curiosità enciclopediche e chi ancora, come le comari del rione, scambiandosi rossori e brevi frasi a mezza voce, un po’ sbirciando e un po’ no ciò che l’animale, dormendo in una posizione così impudica, offriva alla loro vista. Dopo qualche tempo passato pigramente a commentare le mercanzie e le attrazioni di quegli zingari, il vociare dei paesani stava ormai scemando, assestandosi in un sonnacchioso parlottio che rimaneva sospeso in quell’aria pesante.
Giratomi verso il ripiano del comodino per versarmi un bicchiere d’acqua, udii un forte schianto metallico. Mi voltai allarmato e vidi il gorilla, uscito chissà come dalla sua gabbia, che torreggiava sulle teste degli astanti. Un istante di sgomento serpeggiò nella piazza, e subito si impose l’urlo del padrone: “Attenti al gorilla! La stagione dell’accoppiamento è vicina e c’è il rischio che lo scimmione si sfoghi su qualche malcapitato! Correte!”. A queste parole tutti i presenti scapparono per ogni dove, lasciando per strada cappelli e fazzoletti. Alcuni coraggiosi, levatisi le giacche della domenica, cercarono di distrarre il gorilla dalla folla fuggente, ma si dileguarono tutti al primo segno di un minaccioso approcciarsi dell’animale. Anche le comari si affrettarono ad aprirsi una via di fuga, spaventate dalla prospettiva che le loro innominabili fantasie si stessero facendo di colpo troppo probabili.
Una volta dissolta la ressa, però, notai allarmato che due persone si erano attardate: una vecchietta e un uomo togato (forse un giudice o un avvocato, non so) erano stati tagliati fuori, bloccati tra il muro del vecchio municipio, che di ripari non ne offriva, e il gorilla, che sbarrava loro ogni possibilità di salvezza. Non pretendo di riportare i pensieri dei due malcapitati, ma, considerato il preoccupante allarme lanciato poco prima dallo zingaro (il quale se l’era squagliata con tutto il carrozzone) si poteva indovinare cosa passasse loro per la testa. Curiosamente, la nonnetta non mostrava il minimo segno di timore, sembrava anzi colta da una eccitata trepidazione, mentre del giovanotto con la toga persino io potevo distinguere le grosse perle di sudore che gli incorniciavano la fronte e le guance. Ora, certamente simpatizzavo per i due infelici, ansioso com’ero che si risolvesse l’incertezza sul loro destino, tuttavia non potevo non dedicare un pensiero anche allo sventurato gorilla, il quale era in balia del primordiale richiamo della natura, e si trovava nell’urgente bisogno di soddisfarlo. Natura avrebbe voluto che il primate si trovasse in mezzo a suoi simili, e che lì consumasse felicemente il suo istinto, ma il caso ostile gli pose di fronte una vecchia e un magistrato, costringendolo a fare di necessità virtù. Al suo posto, non avrei certo avuto dubbi nell’esprimere una preferenza, ma forse la toga nera a frange del giurista evocò qualche imprecisa presenza scimmiesca nel quadrumane, poiché, sdegnata la vecchia, acchiappò l’uomo per un’orecchia e, caricatoselo in spalla, trottò via imboccando un vicolo laterale. Io, ormai rapito dallo spettacolo e non potendo accettare un finale sospeso, mi affrettai verso la porta. A quel punto, del sole afoso mi importava gran poco, ma presi comunque un cappello per buona misura, tralasciando il bastone. Una volta fuori, mi diressi svelto nella direzione in cui li vidi allontanarsi, seguendo i lamenti e i “mamma!” del poveretto, finché giunsi al limitare di un prato incolto, che il gorilla aveva designato quale suo giaciglio del piacere.
Spero che non vi aspettiate a questo punto che vi venga offerto un resoconto preciso di quello che avvenne tra l’erba alta, poiché sarebbe di pessimo gusto scendere nel dettaglio di un tale spiacevole e cupo dramma. Tutto quello che vi posso dire è che lo spettacolo fu avvincente e pieno di suspense, e vi basti la parola di un vecchio.
Certo è che non capita spesso di assistere a eventi del genere in paese. Sì, qualche volta sono capitati fatti curiosi di cui la memoria ha conservato il racconto, ma questo, quanto a bizzarrie, li supera tutti. Mentre pensavo a ciò, e me ne stavo lì accovacciato a spiare tra la trama dei fili d’erba, cercando di indovinare le forme dei corpi impegnati in quella singolare unione, mi accorsi di una specie di agitata allegria che mi prese, una elettrizzante voglia di condividere con qualcuno la stramba concatenazione di eventi di cui ero stato testimone.
Filai verso casa così spedito da rischiare di farmi venire un colpo, spinto dall’energia di un’eccitazione quasi infantile. Ridacchiai per tutto il tragitto mentre mi figuravo le reazioni che avrei suscitato con quella strampalata storiella. Arrivai alla porta salendo di slancio i gradini fino al mio pianerottolo, saltando l’ultimo. Ero assetato ma non volli bere, un po’ per impazienza, un po’ perché durante la strada di ritorno mi ero ripetuto in testa l’intero discorso e non volevo perdere la concentrazione neanche un secondo, rischiando di dimenticarmelo. Telefonai al mio amico Fabrizio e gli raccontai tutto.