I
Flavio apre gli occhi.
Viene subito accecato dal bianco del soffitto. Un risveglio leggermente sgradevole, ma necessario affinché i suoi sensi si riattivino vigili il prima possibile; questo non gli impedisce di sbattere il gomito nel termosifone, talmente incassato nel muro da dimenticarsene. Il fastidioso dolore lo porta ad osservare meglio quel bianco: le piccole macchie arancioni ai margini del campo visivo sono la prima delusione della giornata. Agitando il capo si scrolla questi pensieri e si gira dal lato giusto del letto. Nello scoprire i piedi per poggiarli a terra, inforca prontamente le ciabatte, quindi si arresta per qualche secondo. La visione dello stipite vuoto e la conseguente consapevolezza che il suo posto sia visibile sin dalle scale del palazzo gli provocano una certa seccatura, ma poi si ripete che doveva pensarci prima di sfondare la porta con la macchina da scrivere. Pazienza.
Si alza barcollante, tende le rugginose articolazioni ed avvia le gambe verso l'angolo destro della stanza, accompagnandosi per bisogno con lo strascichío delle suole. Giunto a destinazione, spoglia il tavolo dei rimasugli del giorno prima, quindi, dopo essersi voltato con ansiosa cautela e tenendo sempre una parte del corpo appoggiata al muro, trova l'arco della cucina. Nonostante l'entrata gli riservi degli indumenti lasciati a terra come incappo, mantiene i rimasugli in equilibrio, ripone gli ostacoli sulla catasta con uno scatto del piede e riprende la propria strada. Si muove meccanicamente nell'oscurità dell'antro per lasciare i resti che porta appresso nell'ingombrato lavabo, dal quale piglia invece un bicchiere viscoso ed un piattino unto. Strofina entrambi sotto lo scroscío dell'acqua ruvida; conduce ambedue al tavolo e ci si poggia pesantemente.
Tutta questa sequela di azioni gli ha indotto una spossatezza ingiustificabile, che porta le braccia a tremare, le labbra ad inarcarsi, la fronte a corrugarsi. Inizia a spingere, ma fortunatamente la situazione corrente l'ha costretto a rinchiudere il posto del pasto in un angolo, contro cui la sua forza, già miserevole, nulla può. Finalmente si rilassa e si rassegna a tornare in cucina, seppure gli provochi un senso di nausea.
A velocità fulminante scatta tra i fornelli sommersi, spalanca gli sportelli più in alto, arraffa ciò che può, balza nuovamente nella stanza nuda.
Tra un ansimo ed un sospiro, sparge il bottino, che constà in un vasetto di marmellata, uno di miele ed una spatola di plastica azzurra; rincuorato poiché non dovrà lordare ulteriormente la stovigliería, affonda lo strumento e presto il muso nelle due delizie. Lo zucchero allevia il mal di testa meglio di qualunque aspirina, e se non fosse per i crampi allo stomaco quell'idillio non avrebbe fine così prematuramente.
Sommariamente soddisfatto, abbandona le primizie all'alba successiva e si ritrova così nell'altra stanza: il bagno.
Qui siede armoniosamente sul lucido trono di ceramica e si scruta nell'immagine riflessa nello specchio in fronte a lui.
In quanto uno dei pochi dettagli su cui abbia avuto potere decisionale, scelse lui stesso di porlo direttamente davanti allo spazio dedicato alla quotidiana deposizione di saggezza: così facendo voleva costringersi a pensarsi, a subire il giudizio di qualcuno. Ma alla fine concludeva che l'unico quesito di cui valesse la pena interrogarsi fosse: com'era possibile che il bagno luccicasse immacolato come il primo giorno? Se si considerava lo squallido salotto (che poi funzionava come anticamera, sala da pranzo, studio e camera da letto, nonchè occasionale sbirciatoio sul mondo) e l'anarchica cucina, il dilemma appariva insopportabile. Non che si curasse più del bagno che delle altre stanze; inoltre, da quel che ricordava, non si era mai fermato per pulire, setacciare, lucidare, o anche solo sputare su una macchia in alcuna delle tre; mai uno sguardo preciso alle condizioni del posto, mai una rinfrescatura di quell'ambiente oramai stantìo, mai l'effettiva volontà di compiere qualcosa del genere. Mai e poi mai qualcosa che potesse distrarlo dalla sua occupazione principale, che gli levava certamente il maggior tempo giornaliero e che non permetteva attenzioni particolari a qualunque attività esulasse da quella.
Pensava tuttavia che sarebbe stato interessante poter controllare la propria dedizione, domarla quando facesse i capricci, carezzarla solo quando lo ritenesse opportuno; sviluppare altre passioni , mostrarle ai coinquilini, dissipare i loro sguardi irrequieti, sorridere.
Ma sapeva bene che tutto questo non era possibile; non solo, non lo aiutava nemmeno a risolvere l'enigma del bagno. Realizzava infatti che trascorreva anche lì un considerevole ammonto di tempo, in riflessioni più grandi di lui, che spesso scadevano in patetiche fantasticherìe.
Lascia finalmente parte di sè al rigurgito delle fogne ed in pochi passi è accecato per la seconda volta quella mattina, anche se è piuttosto sicuro di non avere guardato il soffitto. Comprende che si tratta della luce naturale che si è generata mentre elucubrava, ed ora balugina dalla finestra sopra il letto, l'unica dell'appartamento, la più fastidiosa. Imprecando, prova a placare l'irritazione scorgendo oltre il vetro, per metterlo a uso: poggia le ginocchia sul materasso, palpa appena gli infissi, nota la torre; decide che è tardi per simili sciocchezze e, con un'agilità sorprendente, prende posto alla scrivania nell'altro angolo. Per un po' ha pure provato a mantenere la mobilia in maniera più ortodossa, ma i fruscii provocati dai vicini che giungevano fin dentro la sua vestaglia erano troppo. Con l'attuale posizione ha risolto ogni problema e sta bene.
Siede dunque, e aspetta. Nell'attesa scarabocchia sul quaderno che farà la sua fortuna; quando il nervosismo raggiunge una certa soglia, picchietta con furioso contegno sul muro, addirittura spiaccica un ragno, ma non se ne avvede. Dopo mezz'ora, pregno di sudore e con l'ennesima pagina lacera di scarabocchi, solleva frustrato la massa e la trasporta lentamente al letto. Sbatte via le ciabatte, si lascia ricadere disperato sulle coperte, dalla troppa foga urta col termosifone. Bestemmia sottovoce, si volta e fissa impaziente il bianco del soffitto.
Lo colora di arancione e scaccia il malessere.
Flavio chiude gli occhi.
XXVII
Flavio si svegliò per un insolente pigolio poco al di sopra della sua testa. Addolcito dal suono d'una voce estranea e non ostile, si alzò con gli occhi chiusi e agì come fosse una mattina qualunque. Schivando abilmente l'ospite, strascicando i piedi senza indugio verso e dentro la cucina, si armò di stoviglie e cibo, le ripose con ridicola fermezza sul tavolino e spostò rigorosamente la sedia; quindi fu finalmente immobile.
Marietta l'aveva guardato con profonda dolcezza, affondando gli occhi nelle guanciotte gonfie e facendo schioccare la lingua sulle guance ogni volta le scappasse di ridere, per non interferire nel personale benvenuto di Flavio. Così, alla simulata cecità di Flavio, schic!, all'inchino per riporre la colazione, scic!, al fragoroso spostarsi della sedia, scic!
Finalmente potè accomodarsi e iniziare allegramente il pasto; solo allora, con la certezza che gli voltasse le spalle, Flavio riaprì gli occhi.
Schic! Schic! Schic!
Marietta si era tutta sporcata e aveva un eccesso di risa; Flavio finse di tirarle le trecce e azzardò quasi uno schiaffetto sul suo viso, mandandola in totale crisi d'ossigeno, finendo per rotolare sul pavimento. Mentre portava via gli avanzi, ancora ad occhi chiusi, Marietta si riassestò a sedere sul letto, scomposta e allegra. Flavio tornò al proprio tavolo di lavoro, schiuse leggermente gli occhi e si mise a scribacchiare, senza troppa convinzione; faceva parte della posa che teneva con Marietta.
Stavano entrambi meglio quando condividevano lo spazio. Marietta gongolava fieramente all'idea d'avere un amico poeta, Flavio era soddisfatto di poter almeno intrattenere un pubblico e s'agitava strusciandosi la fronte col dorso delle mani, mentre sriveva di bazzecole senza importanza. Quando la recita s'infiammava, Marietta accocolava le gambe sul letto e rimaneva in divertita ammirazione. A Flavio rasserenava la presenza d'uno spirito così giocoso e infantile; entrambi sovrastimavano l'andamento della vita altrui.
Finalmente, zuppo di sudore attoriale, Flavio poggiava la penna e si girava, sapendo che avrebbe trovato la splendida sagoma di Marietta esaltata dalla finestra alle sue spalle. A Flavio non interessava la bellezza, ma la sagoma, i lineamenti ed i movimenti dettati dalla disposizione di spirito; e quello di Marietta era sempre dolcemente conchiuso in se stesso, con una sguaiata tendenza a piegarsi verso destra. Era un bello spirito, sereno, ben disposto.
Di solito a questo punto Marietta, che aveva già chiuso gli occhi, fingeva d'addormentarsi; Flavio la guardava per un po', tranquillo, quindi se ne usciva ticchettando la porta, gironzolava per il condominio a occhi chiusi, e una volta tornato era solo.
Aveva deciso però di evolvere quella felice routine e questa volta Flavio battè la penna sulla sedia, e Marietta aprì gli occhi sconcertata, credendo chissachè; ma fu immediatamente ancora più sgomenta quando si ritrovò a guardare per la seconda volta Flavio negli occhi. Si erano negati istintivamente questo desisderio durante il loro incontro mensile; non volevano rovinare così quelle preziose ore di totale serenità. Ora però erano faccia a faccia, Marietta incredula, Flavio nascondendo abilmente il suo nervosismo. Lui fece ballare la penna tra le dita, con l'espressione più ammicante che gli riusciva (non aveva allenato molto la mimica). La cara Marietta, mentre attraversava tutto lo spettro delle emozioni, si alzò meccanicamente e, quasi camminando all'indietro pur spostandosi in avanti, raggiunse un trepidante Flavio; in quel momento Monco, un inquilino, passava per il corridoio e gli capitò di assistere al passaggio di mano della penna.
Nessuno dei due lo guardò, erano troppo presi, ma lui aumentò subito il passo: la tensione era palpabile. Nella stanza si scambiarono i posti: Flavio se ne stava compostamente seduto sul letto, fissando il meno possibile Marietta, la quale scriveva lentamente e con difficoltà. Flavio non era neppure sicuro sapesse scrivere e non stesse fingendo con scarabocchi per non deluderlo. Dopo aver conosciuto meglio di quanto avesse mai osato la propria stanza, non riuscì a sopportare oltre e uscì, allungando una vaga pacca sulla spalla a Marietta per salutarla; la sua sensibilità era sorpendente, considerando il disagio in cui si trovava.
XXVII
Non appena fuori, uscì dallo spazio della porta e s'accostò al muro sfinito; stette lì con gli occhi chiusi per qualche decina di minuti, certo non dormiva, non ne era in grado, e sentì pure qualcuno passargli vicino, ma non ci fece caso.
Finalmente si riprese e cautamente sbirciò nella stanza: Marietta era ferma, con una mano sulla spalla toccata e lo sguardo perso dentro di sè.
Flavio tornò fuori dal suo possibile campo visivo e decise di andare per il suo solito, quello sì, vagare. Al ritorno, verso sera, la ritrovò ancora lì, ma ora era china fino quasi a toccare col viso sul foglio, e scriveva agitando le braccia più del dovuto, ma sempre lentamente.
Quella visione lo intenerì un poco e, con l'animo più leggero, se ne andò di nuovo; uscì proprio dall'edificio, sovrappensiero o spinto da improvviso orgoglio. Stavolta però, invece di tenere gli occhi bassi per non soffrite gli sguardi altrui, sostenne lo occhiate d'ognuno e tutte, che fossero di disgusto o di casuale indifferenza, lo sorpresero: non s'aspettava tanta rassomiglianza.
Quando ognuno si fu dileguato e lui non potè più osservarli, Flavio ritornò a casa e la trovò ancora là, addormentata, con la testa riposta scomodamente sul tavolo e il braccio in una posizione goffa, buffamente slanciato verso l'alto, ritto.
Flavio non ebbe l'accortezza di sistemarla meglio e se ne uscì di nuovo, decidendo di ritornare all'alba; non aveva certo sonno quella notte.
Rimproverandosi per lo sfratto subito, Monco vide appoggiato ad un muro con gli occhi chiusi lo strano Flavio; non lo aveva mai visto fuori dal condominio, e si chiese come potesse questo collegarsi ala scena di cui era stato testimone prima. Pensò che forse anche un tipo come Flavio s'era preso una brutta cotta e ora soffriva per amore. Ah, Flavio! Così simile! Perchè non c'aveva pensato prima? Poteva parlargli, era sempre lì solo soletto! Ma non appena Flavio accennò a mettersi in moto, sgusciò via per i vicoli, continuando tuttavia a tenerlo d'occhio.
Dopotutto era l'alba, e di lì a poco il proprietario del locale l'avrebbe cacciato perchè non indisponesse i clienti; dunque Flavio s'incamminò verso casa. Se l'avesse ritrovata là, stavolta l'avrebbe svegliata; forse non avrebbe nemmeno letto quel che aveva scritto o tentato di scrivere: solo si sarebbero guardati reciprocamente per bene, per qualche ora.
Arrivato nell'appartamento, la vide ancora lì, nella medesima posizione, solo un po' più scostata dal tavolo; ebbe una triste impressione, che sentì essere già certezza. Infatti, quando la sollevò dolcemente dal tavolo, notò un' eccessiva rigidità del corpo e soprattutto non ottenne il più lontano accenno di reazione. Era morta, la povera Marietta, di crepacuore. Lo sforzo fisico unito a quello mentale erano stati decisamente troppo per lei, creatura solitaria e inquieta.
"Mph" fu il doloroso addio di Flavio, che più non poteva fare. Voleva leggere il testo però; peccato, perchè era perlopiù incomprensibile. S'era sforzata tanto Marietta, e quei simboli debordanti, privi di forma e grazia, bastarono a increspare le labbra di Flavio. Ogni tanto vedeva una "o", una "a", forse una "b"; ma le uniche parole compiutamente riuscite erano la prima e l'ultima, la stessa, nella quale aveva chiaramente concentrato tutto il suo sforzo: "Ciao!".
Flavio era un poco stanco, non aveva dormito; fermò un inquilino mattiniero, gli mostrò mesto il cadavere e mentre quello era ancora lì, mezzo sgomento, uscì di casa e s'incammino verso un altro luogo con gli occhi chiusi.
A vedere uscire quell'antipaticaccio così stravolto, Monco s'incuriosì, soprattutto contando che quello da cui usciva era l'appartamento del suo nuovo amico. Entrando, comprese appena che la ragazza era morta, fu troppo impegnato a rimanere affascinato dalla sua insostenibile bellezza. Monco dunque si limitò a sedersi sul letto e a guardarla un po'.
XLIX
...
...nnnnnno. no, no...eddai, nooo. ma che? ma che è? ma porca...sembra che il tetto perda acqua...forse ha piovuto...probabilmente è merda di piccione...ah! ma i piccioni non ridono, ehehehehehe. lo sapevo che eri tu, Silvia. lo sapevo ieri e lo sapevo oggi. è inutile che continui a picchiettarmi, ti ho scoperto! no, non li apro gli occhi: te li devi guadagnare. non col solletico Silvia, non col solleticohohohoh! non è leale! silviahahahahahaaaaaaaaa...sei proprio una stronza: una bella stronza, però. vedi che ho ancora gli occhi chiusi. tiè!..certo Silvia che puoi parlare se vuoi eh. già che sei entrata senza bussare. eh, ridi ridi, lo sai che mi piace quando ridi. cioè, con te mi piace quando, in generale. non prendermi in giro! oh, non si può dir niente! senti, ma vaffanculo! ecco, ti do il culo, scema. no non letteralmente, che fai!? ahahahahaha, Silvia! va bene va bene, mi alzo, che palle però. alzarsi dico, non tu, eh Silvia. chi mi sveglierebbe sennò..Silvia Silvia...fatti sentire ancora un po' e giuro che mi alzo. eddai Silvia! Silvia Silviuccia? Silvia Silvietta? guarda che ti uso per pulire! ahahahahahaha...Silvia? sei lì? magari sei dall'altra parte, aspetta...Ah! Cazzo, merda! Il termosifone! Silvia! Sei lì?!
...
Svegliatosi da sogni inqueti, Flavio era sempre lo stesso. Guardava fisso il livido che gli era venuto sul gomito e pensava che fosse proprio ora di farsi visitare. Chissà se c'era un dottore in città, pensava Flavio mentre fissava fisso il livido. Mentre si allacciava le scarpe, guardava il pomo del comodino e gli ricordava Silvia, così tondo come le sue guance piene; solo allora Flavio si accorse di non avere messo i pantaloni. Che imbecille. Si guardava i peli e considerava di tagliarseli; ma dopotutto, chi doveva vederlo? Flavio era un tipo.
Mentre parcheggiava la bicicletta in piazza, gli si avvicinò un giovane coi piercing sotto agli occhi, e gli chiese se avesse due soldi. Flavio mentì di no, come sempre, e quello se ne andò. Mentre sistemava la bici, Flavio ripensò e guardò verso il ragazzo, che solo in quel momento ricordava avesse un borsone con delle coperte; il giovane però se n'era andato. Flavio non si capiva e venne colto da una vampata di calore partire dal livido: si appoggiò alla bici, strisciando fino alle ruote per serrarla. Gli sembrava che il pavimento bruciasse più di ogni cosa e che il cielo, troppo vicino, fosse più gelido del solito. Così Flavio decise di stendersi un poco, tra gli sfrigoli del marciapiede, che gli sembravano pizzicotti materni.
Nello studio del dottore Flavio tentava di mostrargli il gomito e non capiva perché gli prescrivesse una medicina per reintegrare le vitamine, né che ci facesse quel capannello di gente agitata all'uscita: il suo livido non era così brutto, anzi. Toccandoselo, sentiva che era una distorsione del suo corpo, ma almeno sapeva da dove veniva. Non ricordava i suoi sogni, anche se ci teneva. Ora capiva che più li toccava, più provava dolore, e c'era sempre qualcuno che non voleva si facesse male; ora era il medico, che lo fermò quando lo vide intento a far roteare il livido. Flavio, con un dolore lancinante al braccio, cercava anche di spiegare al dottore che non era possibile avesse il colesterolo alto, che non mangiava quasi nulla, e sulla prostata potesse stare sicuro che la trattava bene. Scrutandolo meglio in faccia, il dottore aumentò la dose.
In fila in farmacia Flavio guardava i segni sulle altre persone: c'erano soprattutto irritazioni ed infiammazioni, alcuni si grattavano e si tamponavano sotto i vestiti, altri lasciavano colare il naso o tenevano struccate le occhiaie. Avevano tutti le rughe e nessuno ci faceva troppo caso, e nemmeno Flavio, però le guardava incuriosito; a casa avrebbe controllato se anche lui avesse le rughe. Alla farmacista chiese se avesse qualcosa per il suo livido, ma lei ci diede un bacino, lo accarezzò e disse che sarebbe andato tutto bene. Maledetti omeopati.
"Non siamo omeopati, le pare?"
Flavio guardò torvo la farmacista, senza sapere se scusarsi o accusarla, e quindi tremando di rabbia. Oramai provava dei veri e propri brividi, che lo scuotevano talmente forte da permettere al livido di strappare la manica. Ora Flavio era anche sconcertato da quanto fosse successo e si appoggiò al bancone per riprendere fiato.
"Vuole che chiami un dottore?"
"No no"
Raccolta la sporta con le medicine, uscì, grugnendo di gioia e un po' ridendo di complicità.
Flavio stava su una panchina, al buio, e si rigirava la sporta di medicine nelle mani. Si guardava il livido luminoso e in effetti gli sembrava proprio bello, così rotondo, come le guance di Silvia. Gli bruciava un poco, ma non gli importava. Il freddo della sera gli faceva piacere, e Flavio aveva sospeso la propria salute per quel momento. Stava troppo bene per guardare quanto stesse male, stava benissimo. Si godeva le stelle, come un poeta, e si scaccolava, lasciando cadere le sue medicine a terra. Le aveva sbadatamente messe in equilibrio sulle sue ginocchia malmesse ed ora le calciava via. Flavio iniziava ad avvertire una vaga polmonite, ma purtroppo stava bene. Guardava il suo bel livido, lo accarezzava e lo baciava, e gli diceva che andava tutto bene.
L
Flavio apre gli occhi
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