Lettera forse d'amore
Tante parole per non dire nulla, sottintendere tutto il resto e alludere a ben altro
Te l’ho confessato dentro al tempio dalle pareti d’oro, tra quattro olive, due bicchieri e imbarazzo quanto basta; te l’ho invece sussurrato tra le rovine di un castello, con i bagliori di un’alba frizzante che schiarivano le cime in lontananza; forse l’hai intuito sfogliando insieme le pagine d’un libretto a colori, sfiorandoci appena la pelle imperlata; pure non te l’ho mai dichiarato veramente, se non con gesti immacolati e insospettabili e con perifrasi circostanziali; e a onor del vero: non saprei neanche come dirti cosa.
In fondo l’abbiamo sempre saputo che a stare bene insieme eravamo proprio bravi, senza muta venerazione né pigra condiscendenza, ma rintuzzandoci le braci con costante ardore, esplorandoci e scoprendoci, tra uno scazzo e un battibecco - è pur sempre un gioco, tutto - e qualche parola d’affetto, un abbraccio un po’ più intenso e uno che non finisce mai, il solletico alle mani e un cenno che è tutto.
E, in fondo, l’abbiamo sempre saputo che prima o poi ci saremmo persi; qualche volta per l’incolmabile distanza dei nostri corpi e dei nostri luoghi, ma molte altre per la variante più silenziosa e dolorosa: la distanza delle parole e del pensiero. Col tempo abbiamo disimparato a leggerci e a guardarci, abbiamo esaurito le cose da dire, forse tu a me o forse io a te, abbiamo abbandonato i nostri segni, forse per pigrizia, forse l’entropia - chi può dirlo; semplicemente, la vita ci è accaduta. Abbiamo provato a dissotterrare i nostri verbi ancestrali, a ricostruire uno scheletro di simboli e metafore, e soprattutto: a spiegarci! Ma ne è sempre risultata una casa di paglia tutta tremante, pronta a cadere sotto gli ululati incessanti del tempo. E per farci stare in piedi, credendo servisse davvero a qualcosa, ogni volta abbiamo eretto le nostre mura dimenticandoci porte e finestre, fino a diventare inattaccabili, impenetrabili, invalicabili, inaccessibili: io ho dimenticato come leggere i tuoi umori, tu hai rinunciato a indagare i miei dubbi, io ho cercato di parlarti ancora sfiorandoti la mano, tu ti sei sottratta per ripiegare in altre convenzioni. Ci siamo via via rinnegati, e per paura di sbagliare, di ferire, di soffrire, abbiamo finito per sbagliare, per ferire e per soffrire due tre dieci cento volte tanto, e per paura di perdere chi siamo stati abbiamo trovato che non c’era più niente. Proveremo sempre a parlarci in una lingua - che sarà la nostra ma non la stessa - e piccole sfumature si affaccenderanno via via in un tumulto di incomprensioni, accuse e depistaggi; cosa resterà di noi, e di quel che ci siam detti e di quel che abbiamo fatto?
Tutte le lacrime le ho già versate (“Pure per me, davvero?”), le ho versate tutte anni fa ma pure l’altro ieri come anche ora, ogni volta per lo stesso motivo: sapere di lasciarti andare. E lasciar andare quel che vorrei che tu fossi, che io fossi con te, che potessimo essere insieme, farlo portare via dal vento caldo della sera su, su, e poi seguirlo per vederlo scomparire all’orizzonte, oltre i primi astri; e finalmente salutare con un sospiro tutto quello che ci trattiene dal vivere davvero.
Prenderci lo spazio, che è poco, e il tempo, ancora meno, per imparare a volerci bene come siamo. Scoprire di avere più spigoli e storture del previsto: un po’ li aggiusteremo, e degli altri ce ne faremo una ragione. Ripensarci, noi, diversi da come ci pensavamo, e chissà cosa penserebbe l’altro, chissà cosa direbbe l’altro di queste nostre nuove scoperte - sarebbe bello raccontarsele, vero? E allora ti cercherò ovunque e altrove, sia nei posti conosciuti che in quelli ancora inesplorati e pure in tutti gli altri, ti cercherò affannosamente nelle forme e nei colori, nei sapori e nei paesaggi, tra un’increspatura della memoria e l’altra.
Non ce ne farò una colpa, ma non potrò fare a meno del ricordo: quel che dimenticherò sarà andato per sempre, il resto sarà un eterno ritorno.
Come quella fermata di linea, proprio davanti all’ufficio, che mi ricorderà l’ultimo bus su cui ti ho vista salire, col tuo borsone a tracolla insieme a cento altri ingombri, un breve cenno da lontano e poi via; e ogni pizza che avrà proprio lo stesso sapore di quella mangiata insieme fino alla nausea, sempre lì, mai stanchi, e di tutte le altre pizze condivise noi due soli o con altri; così ogni prelibatezza si porta dietro ancora la tua prima impressione, e di ogni nuovo sapore investigherei il tuo palato; e quel libro che sporge un po’ di più, inevitabile cascarci con l’occhio sopra quando si apre la porta per entrare, e così rivivere il peso del pacchetto tra le mani, il fiocco da sciogliere, il cartellino che scivola a terra, il titolo che spunta dietro la prima piega del tuo meticoloso incarto; “e il pepe in cottura”, mi chiedo ancora aprendo la dispensa delle spezie, “meglio prima o meglio dopo? Meglio troppo o troppo poco?”; e quel treno così comune che ha l’ardire di passare sempre inevitabilmente dal tuo paese natale; e i fili d’erba di ogni prato che mi trafiggono come in quel pascolo spopolato dove abbiamo riposato stesi al sole, esausti, sfiniti, senza più sentirci le gambe e le caviglie, ogni muscolo che invocava pietà, cercandoci appena con le punte delle dita; e mi basta un profumo, così chiaro così comune così luminoso così limonoso, basta quello per sentirti qui e girarmi di scatto; e tutti i fogli di carta che aspettano solo di esser piegati in quel piccolo origami ancora intatto, iniziato per gioco e finito per sfida, che pur rimane lì a prender polvere; e su ogni bicicletta color menta - anche se per te sarebbe salvia - che mi sfreccia accanto, mi sogno il balenare dei tuoi capelli; per le strade medievali, distinguo ancora impeccabilmente il suono dei tuoi passi impazienti di metter pace alla fame, e si confondono tra miliardi di altre scarpe venute dopo di te; e in tutti quei cappucci che spuntano d’inverno, coronati di pelliccia e pelo folto, mi sembra di vederti rintanata lì dentro, a nasconderti dal freddo; spolverando i giochi e i divertimenti, ci rivedo a raccontarci i nostri sogni, a preparar ingredienti e pozioni, a infilare numeri uno dietro l’altro, a inventarci parole per non dirne altre, a disegnare storie improbabili; ogni nuovo colore che scoprirò, che nominerò, ogni linea figura e forma che traccerò, mi ricorderà uno dei quadri visti insieme e di cui tu avevi evidenziato questo o quell’altro particolare - che non potrò più non vedere -, o un cartellone pubblicitario, o un angelo del focolare o un pesco in fiore; e passando per le vie del parco ripenserò a quella volta in cui ci raccontammo l’un l’altra, e ci raccontammo di libri e di racconti e di favole e di altre storie; prendendo un treno, un bus, un aereo o un altro mezzo, conserverò l’abitudine di girarmi verso di te, qualche volta a sinistra qualche altra a destra, cercandoti invano tra i passeggeri per indicarti un dettaglio del paesaggio, per condividere qualche preziosa riga di un libro, per controllare se ti sei addormentata o se sei tesa per la partenza - anche se non sarai partita con me; e nei campi sconfinati sarai sempre l’unità di misura dei girasoli, così alti e placidi e solenni, una volta e mezza dai tuoi piedi alla cima della testa; e quando aspetterò i colleghi per uscire, per un aperitivo o per altre faccende chissà, anche se non saremo più tra loro, mi sporgerò appena da un angolo qualunque pur di ripensarti a ritirare tutte le tue cose e impacchettarle in fretta nello zaino; e rivivrò i tuoi racconti con i tuoi stessi occhi ogni volta che passeggerò lungo la Senna o il Tamigi, per le vie trafficate di Parigi o di Berlino, inerpicandomi sulle creuze e sulle colline al San Luca, tra le vetrate di Canterbury o del Notre-Dame, scalpicciando intimidito davanti alla Sagrada Familia come fosse un colossale formicaio, rincorrendo le pale dei mulini a vento, arrampicandomi sulle bianche scogliere; ritroverò le tue pose, proprio là dove le avevi immortalate; e ricercherò ovunque il profilo del tuo naso, la tua voglia (che nome strano, poi!) sul braccio, il tuo neo da attrice e pure tutti gli altri, le tue fossette appena accennate, i tuoi capelli infiammati dal tramonto, il tuo passo dinoccolato un po’ davvero un po’ per gioco, la tua voce nell’eco delle canzoni che intonavi, i tuoi occhi guizzanti - floride praterie verdi, profondi ghiacciai artici e calde nocciole tostate: hai sempre portato tutti i colori con te -, le tue smorfie smodate, i tuoi moti di stizza, di gioia, di affanno e di affetto; e pur se sarò da solo, o con altri trenta ospiti divisi tra sedie poltrone divani e cuscini, cucinerò anche per te tutte le mie specialità, con tutta la calma che il tempo mi concederà, e con tutto l’amore che saprò raccogliere.
Ogni nuova esperienza non sarà altro che la ricombinazione - inaspettato, vero? - di altri passati e di vecchi ricordi spremuti tutti insieme, accatastati l’uno sopra l’altro, strato dopo strato dopo strato, ere geologiche della mia vita che si rincorrono e si confondono schiacciate tra un rimpianto fresco e un altro più che secolare. E tu vorticherai lì, al centro, ogni nuovo giorno ti riesumerò un poco di più, mentre continuerai a sprofondare e a sedimentare sempre più a fondo nei miei ricordi, così vicina ma sempre più lontana, a un ripensamento di distanza, e giù di pala giù a scavare per ritrovarti e dissotterrarti, un tesoro nascosto o forse solo abbandonato, ma la x non è segnata da nessuna parte ed è un attimo perderti di vista e dimenticare anche il dettaglio più insignificante, eppure così fondamentale, cruciale per continuare a ricordare.
Ci siamo persi e ci ritroveremo così tante volte che ho rinunciato a tenerne il conto, ma so che ogni volta sarà sempre un po’ l’ultima: a ricordarsi, a risentirsi, a rivedersi, a riscoprirsi, a riprovarci. Stavolta finalmente con le parole giuste, con i gesti puntuali, con la lingua ora nostra, con cui dirci le nostre cose senza stancarci mai, senza rifugiarci pigramente in monosillabi e mezzi accenni; finalmente senza bisogno di inventarci parole perché son già tutte qui, una dietro l’altra, bastava questo a capirsi! Scopriamo ora di parlare lo stesso mondo, d’intenderci, di giocare più di prima, persino di non doverci spiegare. Quella distanza mai sazia brulica ormai innocua lì nell’angolo, come un gomitolo in balia del gatto; ma è sempre lì, esattamente dove l’abbiamo confinata, negli interstizi tra un’intesa e l’altra, lì a spingere per farsi spazio tra le nostre complicità, provando a schiacciarle e a domarle; eppure, stavolta non ci spaventa più: perché quando ci perderemo nuovamente sapremo di dover cercare la strada, e come ritrovarla, e darsi tempo e spazio. Perché già ora, quasi, sento che le tue parole vibrano prima di arrivare a me, per un istante le vedo sbattere le ali, sfarfallare davanti ai miei orecchi, e il dubbio mi pizzica la nuca; appena ritrovati ed è già tempo di salutarsi, e di lasciarsi andare.
Io rimarrò qui, sulla riva del tempo, a guardar nuotare i lucci splendenti e le carpe maestose: chissà che poi un’onda ti riporti da me dentro una conchiglia.
Pubblicato originariamente su: D’inganni e di comete